Caro gioco della pallacanestro. Sabato al PalaMinardi c’erano due squadre prime in classifica. Una in bianco e verde, l’altra in granata e oro. La partita è iniziata e subito, tra fotografi e telecamere, ho visto anche te. Ti ho visto in campo tra due squadre che provavano a costruire pallacanestro. Costruire pallacanestro significa costruire gioco insieme. Un solo giocatore può costruire un tiro, ma non può costruire il gioco. Il gioco si costruisce insieme e sai bene che farlo è maledettamente difficile. Tu ti sei evoluto, ti sei adattato a un tempo che ha fretta e mette fretta anche a te. Ti sei dannato per inseguirlo quel tempo e lui ti ha lasciato indietro. Inutile chiedersi perché. Non è colpa tua, sei cambiato perché era giusto cambiare e lo so che cosa pensi ora. Pensi che alla fine costruire gioco insieme sia più bello che farlo da soli. Pensi che un tiro venuto da due ribaltamenti o due palle dentro sia più bello di qualsiasi tiro venuto da dieci palleggi sul posto. E così sabato lo hai mostrato a tutti. Hai preso atlete di livello strabiliante e le hai messe lì a costruire l’una per l’altra. A mostrare a tutti come ci si passa la palla. Perché tu lo sai, la palla non si passa per mancanza di alternative: si passa per creare un tiro migliore per qualcun’altra.

Peccato per chi non c’era. Non ha visto Walker esultare per aver mandato Hamby a segnare proprio con uno di quei passaggi. Non ha visto Romeo sacrificarsi per lasciare spazio alle sue compagne, con tutta la difesa veneziana lì ad aspettarla. Non ha visto Soli fare quello che fa sempre, ovvero essere l’ultimo playmaker d’Italia. Non ha visto Consolini fare il capitano con eleganza. Non ha visto Nicolodi entrare per un minuto dopo tre settimane di stop solo perché la sua squadra aveva bisogno di quel minuto. Non ha visto Gatti lasciare anche l’anima sotto al canestro. Non ha visto Ibekwe provarci in ogni modo possibile, anche senza segnare. Chi non c’era non ha visto Kacerik, che ti capisce e ti legge come un libro aperto. Kacerik che ora ti mancherà, perché una giocatrice come lei è il modo migliore che hai per ricordare alla gente quello che sei e per insegnare ai ragazzi che da soli si palleggia, si corre, si tira, ma non si costruisce il gioco.

Chi c’era ha visto tutto. Anche le giocatrici in granata e oro strette intorno a una divisa di un altro colore. Chi c’era si è riempito gli occhi di te. E allora ti chiedo scusa per chi non c’era. Ti chiedo scusa per quei bambini che non hanno potuto lasciare il palazzetto con un ricordo che li avrebbe accompagnati per sempre. Per chi c’era, ti dico grazie. Anche per me. Perché, finalmente, mi sei mancato.

Lia Valerio