E adesso?
La vita è più importante. Grazie. Non serve metterli sulla bilancia, la vita e lo sport. Serve lasciare che stiano vicini, perché sono fiamme gemelle. Sono dentro lo stesso fuoco e non possiamo immaginare l’oceano di rispetto che c’è tra di loro. Lo sport ci ha sempre spiegato la vita. Ci ha insegnato tutto sui giorni passati, presenti e futuri. Forse non siamo stati capaci di impararlo, forse lo abbiamo dimenticato.
Abbiamo dimenticato che il sacrificio non ha nazione, che il dolore non sa cosa sia un confine. Che non importa la palla a spicchi, ovale, grande, piccola. Non importa il parquet, il prato, la pista, l’acqua. Abbiamo dimenticato che non ha colore un pugno alzato in segno di vittoria. Non ha religione una mano che ne prende un’altra per alzarla da terra. Lo sport da sempre prova a prenderci per mano prima che la storia ci prenda a pugni. Olimpiadi di Berlino, 1936. Mentre la storia già ci prende a pugni, la mano ce la prende Luz Long. Un tedesco biondo che spiega a un americano nero del sud come deve saltare per non fare un altro nullo. Berlino. 1936. Jesse Owens non vede biondo, non vede bianco. Vede Luz. Jesse Owens vince la medaglia d’oro nel salto in lungo. All’ultimo tentativo, sistema lo stacco, salta e mette in riga il mondo con uno schiaffo stracolmo di bellezza. Il mondo però siamo noi e noi dimentichiamo.
Così lo sport ci riprova. Ancora a Berlino, nel 2009. Ancora nel suo stadio, quello del ‘36. Sì, ci prende in giro, tanto non ce ne accorgiamo. La medaglia d’oro nei 100 metri con un ridicolo 9.58 è Usain Bolt, la bellezza è un esercito di bambini tedeschi e biondi con i volti dipinti di nero. Quei bambini sono la bellezza. Sono l’ironia, sono l’arte di un cielo nero sopra Berlino. Sono parole che non vanno dette. Perché lo sport non trova parole, ma le cose le dice lo stesso. Nel 2008, un Santiago Bernabeu di un bianco sfavillante si consuma le mani per applaudire Alex Del Piero. Non trova parole e non le trova neanche dieci anni dopo, quando il numero 7 del Real Madrid si appende alle stelle e dipinge un quadre nel cielo dello Juventus Stadium. La Torino bianconera batte le mani forte, come la Madrid bianca del 2008. Il numero 7 si tocca il cuore. Forse lo non lo sa, che non è solo il suo. Quel cuore è di chi sente che il cielo è tornato di un solo colore. Quale colore, non importa a nessuno.
E adesso? Adesso bisogna smettere di dimenticare. Smettere di dimenticare che abbiamo bisogno di Luz, di Jesse, di Alex e di Cristiano Ronaldo. Abbiamo bisogno di Micheal Jordan che nasconde una lacrima mentre il First Union Center di Philadelphia grida “we want Mike”. Abbiamo bisogno di Federica Pellegrini che prende a schiaffi no, a schiaffoni l’acqua di Budapest che ha provato a rubarle la corona. Il calcio reclama il diritto di tornare a correre, il diritto di tornare a far battere i cuori. Calcio, io ti amo, ma la vita e lo sport stanno prendendo in giro anche te. Far battere i cuori non è un tuo diritto. È quello che fai perché sei nato per questo. Lo avevi dimenticato e noi con te. Bravo, torna giù. Sporcale quelle scarpe dai tacchetti d’oro. I cuori della gente hanno sempre battuto per te. Sei arte. Sei sport. Sei fede e come la fede sei nato senza diritti. Il tuo pallone è come tutti gli altri. Il tuo prato è come il parquet, come il tartan, come l’acqua. Torna giù e corri, tu che puoi farlo. Corri, che la vita ha bisogno che la sua fiamma gemella bruci insieme a lei.
Lia Rebecca Valerio